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16.07.2019

Cësa. Un photo reportage di Manuel Montesano

Intervista al fotografo e video-maker Manuel Montesano, autore del photo reportage del centro accoglienza “Casa Sole” di Ortisei

Raccontaci di te e della tua professione. Quali sono le radici della tua fotografia?

Quando avevo 15 anni ho frequentato il mio primo corso di video, che è rimasto un hobby per qualche anno. Poi ho iniziato a suonare, mi sono dedicato quasi totalmente alla musica, e per un paio d’anni ho lasciato l’interesse per la fotografia in un cassetto. Nel 2012 ho partecipato ad un progetto della fotografa Silva Rotelli e la mia passione per la fotografia si è risvegliata. Gradualmente la fotografia è entrata nella mia vita, e mi sono ritrovato ad avere la macchina fotografica in mano praticamente tutti i giorni. Quando l’ho realizzato, ho deciso di formarmi seriamente in materia, e mi sono iscritto al biennio in fotografia di Spazio Labo’ a Bologna. Ora la fotografia e il video making sono diventati la mia professione.

Parliamo del libro di Cësa. Da dove arriva l’ispirazione? 

Sono entrato nella realtà di Volontarius con la macchina fotografica in mano. Ho iniziato facendo l’assistente di Silva, la cui cooperativa (PianoB) collabora con Volontarius da anni.

Cësa nasce all’interno del corso di fotografia documentaria della scuola di fotografia che ho frequentato. Ho iniziato documentando tutti i centri d’accoglienza gestiti da Volontarius, fotografandoli all’interno e all’esterno utilizzando il banco ottico. 
Dopo aver visitato le varie strutture ho capito che mi interessavano le storie di chi le viveva. Quindi ho deciso di concentrarmi sugli ospiti del centro “Casa Sole” di Ortisei. 

Come sei entrato in relazione con le persone che vivono a “Casa Sole”?

Sono entrato a “Casa Sole” senza la macchina fotografica. Prima di tutto volevo conoscere le persone, che mi hanno accolto benissimo fin da subito. Dopo due ore che ero arrivato mi hanno invitato a mangiare e suonare con loro.

Ho adottato delle tecniche per inserirmi nelle diverse situazioni. Una delle prime cose che ho fatto è stato utilizzare una macchina fotografica molto piccola e discreta in modo da essere meno d’impatto. Quando si sono abituati ho iniziato a portare la macchina fotografica più grande, mentre quella piccola la davo ai bambini ed erano loro che facevano le foto. La presenza di più macchine fotografiche ha permesso loro di abituarsi alla mia presenza, fino al punto di essere quasi ignorato.

In un secondo momento, dopo aver conosciuto la realtà all’interno della struttura, ho iniziato a seguire le persone fuori dalla struttura. Sono andato con loro sui luoghi di lavoro, per esempio nei campi agricoli o nei ristoranti. Ho indagato la loro relazione con il contesto, con i colleghi e con i datori di lavoro. A conti fatti, sono tornato a “Casa Sole” circa una volta al mese, per un anno e mezzo.

Parafrasando Henri Cartier Bresson, uno dei pionieri del photo reportage, per “significare” il mondo è necessario sentirsi coinvolti in ciò che si guarda attraverso il mirino.

Come hai vissuto questo percorso a fianco degli ospiti e gli operatori di “Casa Sole”?

Quello che a me interessa è indagare le situazioni “da dentro”, toccarle con mano. Per me è fondamentale vivere le situazioni per poterle raccontare con consapevolezza. La fotografia per me è un pretesto per poterlo fare. È la mia via d’accesso a questo mondo.

Vivere all’interno del centro mi ha permesso di superare ogni possibile preconcetto. Ero dentro le situazioni, ero molto vicino alle persone, talvolta anche letteralmente, come nella foto di Moussa che raccoglie i lamponi.

I testi all’interno di “Cësa” sono ricchi di numeri, dati, statistiche. Al contrario, le fotografie raccontano volti, persone, storie. Alcune sono state scattate in situazioni e momenti molto intimi, come quello della preghiera o all’interno della propria camera da letto. Che rapporto esiste tra i testi e le fotografie? 

Ho voluto fornire un contesto oggettivo e scientifico, per creare contrasto con la parte più emotiva e relazionale che c’è all’interno della casa.

Ho cercato di raccontare il contrasto che c’è tra i grandi numeri - che poi non sono così grandi - degli sbarchi e delle persone immigrate che arrivano in provincia, con cosa realmente accade dentro un centro.

Purtroppo molte persone credono ciecamente a quello che leggono su internet o a quello che sentono al bar. Di conseguenza vivono di stereotipi e pregiudizi. Attraverso questi dati e fotografie vorrei sfatare falsi miti e dare voce ai diretti interessati.

C’è una situazione o aneddoto del percorso a cui sei più affezionato e/o che ti ha particolarmente colpito? 

Cerco sempre di fotografare con razionalità. Voglio raccontare attraverso le immagini a prescindere da quello che provo nel momento dello scatto. L’obbiettivo della macchina fotografica mi permette un distacco dalle situazioni, anche se non sempre senza problemi. Ci sono state situazioni dove la parte emozionale ha prevalso sul mio lavoro. Per esempio quando una famiglia mi ha raccontato il loro viaggio in barca. Quello è stato un momento molto intenso per me e dove mi sono posto non pochi dubbi etici.

Queste fotografie mi conferiscono un senso di silenzio, di calma. Cosa ne pensi? 

Effettivamente “Casa Sole” è un posto tranquillo, rispecchia il paese in cui è ospitato. Ad Ortisei c’è un gran silenzio, per me è un posto meraviglioso.
Gli ospiti del centro hanno sviluppato una convivenza rispettosa e molto familiare. C’erano sei bambini, tra cui due neonati, di cui tutti si prendono cura. Inoltre ci sono anche i momenti di festa, come alla vigilia di Natale, quando abbiamo mangiato e festeggiato tutti insieme il compleanno di uno dei bambini.

Cosa ti piacerebbe che le persone si portassero via da questo tuo lavoro? 

In questo periodo storico dove si parla tantissimo di migrazione, soprattutto degli sbarchi che avvengono sulle coste italiane, c’è una grande disinformazione in merito all’accoglienza e a quello che succede sul territorio.

L’intento di questo progetto è quello di raccontare chiaramente quello che succede all’interno di un centro di accoglienza, distaccandosi dall’estetica delle cronache e dai racconti politicizzati. Lo scopo è anche quello di raccontare lo sforzo delle associazioni, degli operatori, dei volontari e soprattutto degli ospiti che quotidianamente si impegnano per integrarsi, per imparare la lingua e la cultura.

Cosa ti interessa delle persone che vivono nel centro di accoglienza di Ortisei? Hai ricercato qualcosa in particolare attraverso questi gli scatti? 

Mi è stato raccontato che inizialmente la popolazione locale non era particolarmente entusiasta del nuovo centro per richiedenti asilo. Ma quando hanno imparato a conoscerli si sono rivelati molto accoglienti. Ricordo di una signora ladina che arrivava con dei sacchi di vestiti da riparare perché uno dei ragazzi è sarto. Oppure i ragazzi che la domenica si trovano al campetto da calcio con i giovani locali, con un gruppo di peruviani e un altro di giovani provenienti dal sud Italia.

Con questo progetto voglio raccontare la situazione reale di “Casa Sole”, ovvero che si tratta di una dimensione intima, dove 25 persone convivono come una grande famiglia, mangiano insieme e vanno al lavoro.

Queste sono le storie che fa bene sentire, le storie che mi fanno confidare nuovamente nell’umanità, le storie che in pochi raccontano.

 

Potete seguire i progetti di Manuel su manuelmontesano.com